Dopo quasi dieci anni di processi, custodie cautelari e accuse infamanti, è arrivata l’assoluzione definitiva per Fabio Mangiovini, 63enne di Osio Sotto, già consulente per armerie e armaiolo per diverse polizie locali. La Cassazione ha annullato ogni condanna con la formula più piena: «perché il fatto non sussiste». Si chiude così un calvario iniziato nel 2015, che Mangiovini oggi definisce senza mezzi termini: «Un inferno».
Tutto era iniziato con l’arresto, a Bologna, di una coppia di collezionisti trovata in possesso di un mitragliatore. Da lì le indagini avevano portato i carabinieri del Ros a Osio Sotto, dove Mangiovini possedeva un laboratorio in cui si occupava della riparazione, manutenzione e revisione di armi da fuoco. Il suo nome era noto nel settore e tra i suoi clienti figuravano anche diversi agenti di polizia locale.
L’11 giugno 2015 scatta la perquisizione, e i militari trovano 23 armi ritenute inizialmente clandestine, tra cui una pistola semiautomatica Uzi, una carabina Mosin Nagant e una Fal, giudicate non regolarmente bancate, cioè non verificate dal Banco nazionale di prova. Mangiovini finisce in carcere per tre giorni e poi ai domiciliari per quasi tre mesi. Il suo laboratorio viene sequestrato, insieme a oltre cento armi, molte delle quali appartenenti a clienti.
«Quelle armi non erano clandestine né da guerra, erano state demilitarizzate e acquistate legalmente all’asta da un’armeria milanese per cui lavoravo come consulente», ha spiegato l’ex armaiolo. Il suo compito era verificarle e portarle al banco di prova di Gardone Val Trompia. La documentazione era regolare e la questura aveva autorizzato la custodia temporanea.
Tuttavia, l’accusa si era basata su una perizia che definiva le armi come clandestine, ignorando il contesto e la prassi professionale. La Procura di Bergamo lo aveva portato a processo, ottenendo una condanna in primo grado a due anni. La Corte d’appello aveva confermato, riducendo lievemente la pena.
La svolta è arrivata con il ricorso in Cassazione presentato dall’avvocato Gianluca Quadri, che ha evidenziato come il tribunale di Monza avesse archiviato un caso analogo riguardante lo stesso lotto di armi in possesso dell’armeria Ratti. Secondo i giudici supremi, la detenzione da parte di Mangiovini era «autorizzata, temporanea e tracciabile», e la bancatura era effettivamente in corso. La Corte ha bollato come «illogica» la ricostruzione d’accusa sostenuta in appello.
Oggi Mangiovini è in pensione, ma le ferite sono ancora aperte. «Solo tre o quattro clienti mi sono rimasti vicini, gli altri sono spariti. In paese mi guardavano come un lebbroso», racconta con amarezza. La licenza da armiere gli è stata revocata, e non sa se potrà mai tornare a svolgere quella che per lui era una passione prima ancora che un lavoro.
Le armi personali sono ancora sequestrate, nonostante l’assoluzione. «Sono stato trattato da criminale per un errore clamoroso – conclude –. Oggi ho giustizia, ma per anni ho pagato colpe che non avevo». Una vicenda che riaccende i riflettori su quanto possano essere devastanti, anche a livello umano, le conseguenze di una lunga ingiustizia giudiziaria.