Evaso per farsi curare: 28enne senegalese chiede di tornare in carcere

Il giovane, affetto da epilessia, ha spiegato di ricevere migliori cure in carcere. Dopo una crisi in Aula, è stato portato in ospedale

Una storia che sfida la logica, ma che pone interrogativi importanti sulla gestione della salute mentale e fisica dei detenuti ai domiciliari. Un 28enne senegalese residente a Gorlago ha deciso di evadere volontariamente dai domiciliari, consapevole delle conseguenze, pur di tornare in carcere. Motivo? Lì riceverebbe cure migliori per la sua epilessia.

Il giovane è stato trovato dai carabinieri a Chiari, in provincia di Brescia, mentre si recava a trovare la figlia e la madre della bambina. Una volta fermato e portato in Tribunale a Brescia per l’udienza, ha avuto una crisi epilettica in piena Aula, costringendo all’intervento il personale sanitario. È stato ricoverato in codice giallo, dopo essere stato immobilizzato su una barella e dotato di maschera d’ossigeno.

«In carcere mi curano meglio»

La motivazione dell’evasione, secondo quanto riportato dal Corriere di Bergamo, è chiara: «In carcere mi somministravano i farmaci giusti, seguivano le terapie con attenzione. Ai domiciliari invece sto peggiorando», avrebbe dichiarato il 28enne, che attualmente vive a casa del fratello.

Senza un lavoro fisso, con alle spalle piccoli precedenti per spaccio di stupefacenti e già sottoposto in passato alla detenzione in carcere, l’uomo ha più volte violato i domiciliari. Nonostante ciò, il gip di Bergamo ha scelto di non aggravare la misura cautelare, lasciandolo ancora ai domiciliari, seppure con l’evidente disagio da lui manifestato.

Una richiesta paradossale, ma significativa

Il paradosso del caso è tutto nella richiesta del senegalese: «Riportatemi in carcere», perché lì si sente più tutelato sotto il profilo sanitario. Una condizione che evidenzia lacune nella gestione dei pazienti fragili in detenzione domiciliare, soprattutto per coloro che non possono contare su una rete familiare o assistenziale adeguata.

Un caso che solleva dubbi non solo di natura giuridica, ma anche sociale e sanitaria, e che potrebbe indurre a riflessioni su come garantire continuità terapeutica anche al di fuori del circuito penitenziario.

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